Quando si sente parlare di innovazione spesso si usa anche il termine disruptive innovation, un termine molto caro soprattutto a chi fa startup.
Ma cosa significa disruptive innovation?
Letteralmente la traduzione sarebbe “dirompente” e viene utilizzata per quelle innovazioni tecnologiche capaci di cambiare profondamente il funzionamento di un mercato o di un settore.
Il termine è stato utilizzato per la prima volta da Clayton Christensen nel libro “Il dilemma dell’innovatore” del 1997 per spiegare due tipi di tecnologie che le aziende potevano adottare: da una parte quelle incrementali, che permettono alle aziende di mantenere la loro competitività un aggiornamento alla volta, ma non a soddisfare una certa nicchia di clientela, e appunto quelle disruptive, difficili da mettere in atto, ma che permettono di conquistare un settore dopo aver convinto i primi clienti.
Esiste una contesta tra cosa è disruptive e cosa no. Un buon esempio è Internet che ha creato modelli di business unici che prima non esistevano e ha lasciato indietro le aziende che non si sono “digitalizzate“, stesso discorso per l’AI o per la blockchain. Diverso è quando la tecnologia migliora una tecnologia già esistente, in quel caso non siamo davanti a una disruptive innovation.
Come si può capire questo è un tema che si ricollega con le startup che cercano di proporre nuovi modelli di business innovativi capaci di scalare rapidamente e globalmente. Non è un caso che aziende di successo, un tempo startup, come Airbnb, Amazon, Google, Facebook tra le più recenti, ma anche le più longeve come Apple e Microsoft abbiano profondamente innovato i propri mercati in modo dirompente.